di Stefano Benni con Francesco Bernava, Nicola Alberto Orofino e Alice Sgroi Regia Giovanni Arezzo Produzione Mezzaria
Il “Dancing Paradiso” è un posto magico, dove “non bisogna essere buoni per entrare / accettano anche le carogne / e qualche volta le fanno cambiare”. Un locale, forse, oppure soltanto un microfono a disposizione di chi vuole usarlo per raccontarsi e aprirsi a chi ha ancora voglia di ascoltare, e regalarsi a chi ha ancora voglia di accogliere. Sepolti dai loro peluche, e guidati da una sibillina voce angelica, senza sesso e senza età, i cinque strani protagonisti della nostra storia (Stan, il pianista triste; Bill il Bello, un ex batterista in punto di morte; Lady, una poetessa con manie suicide; Amina, una barista gitana con un passato tumultuoso; Elvis, un hacker che sogna di diventare un killer) si incontreranno al Dancing Paradiso, in una serata che si preannuncia cruciale per ognuno di loro, e che potrebbe cambiarne la vita. Tra ironia e invettiva, rime e versi, Stefano Benni, con la sua lingua contemporaneamente lirica e quotidiana, altissima e popolare, ci racconta gli ultimi come solo lui sa fare, facendoci sperare (o dandoci l’illusione?) che da qualche parte ci sia un posto, segnalato da una insegna blu luminosa, dove ci si possa raccontare senza giudizi e critiche, e dove ci si possa fare amare semplicemente per ciò che si è.
Giovanni Arezzo
Testo e Regia Tino Caspanello con Cinzia Muscolino e Tino Calabrò Produzione Compagnia L’Arpa, Statale 114, Teatro Pubblico Incanto
Recuperare il surreale, il metafisico che abbiamo dimenticato: questo è l’imperativo dei due personaggi di Non siamo qui, due esseri umani in fuga dal luogo comune, perché il mondo sembra essere diventato il luogo comune per eccellenza, un luogo dove l’autenticità non è un punto di forza ma qualcosa da tenere nascosto per non soccombere davanti all’alienazione quotidiana che impone modelli e stili di vita che niente hanno di autentico, ma sono soltanto finzioni funzionali alle trappole di sistemi congegnati per darci l’illusione di una felicità vuota però di contenuti, di senso e di memoria. Bisogna allora progettare la fuga e metterla in atto, sperando di trovare un altrove e che in questo altrove ci sia un posto dove potere tornare a respirare l’aria buona.
di Domenico Loddo con Silvana Luppino e Domenico Canale regia Christian Maria Parisi Produzione Teatro Primo
Aramen e Stanum è un testo basato su una riflessione ed approfondimento sulla emersione dalle acque dei Bronzi di Riace e l’impatto che questa scoperta ha sull’autore e sulla drammaturgia. “Non si è cittadini del mondo. Piuttosto abitiamo tutti in un piccolo spazio di esso, che chiamiamo casa, via, quartiere, città, regione, nazione, continente, mondo. Piccoli puntini disseminati in una vastità incalcolabile. E ognuno si muove nello spazio contando il tempo, per superare confini, linguaggi, culture e destini. E poi? Poi ci sono le storie, raccontate, scritte, disegnate, recitate, che cercano di ridurre la distanza tra la nostra pochezza e il mistero di quella vastità.” Domenico Loddo
Trama Un musicista e una attrice che si sono perduti dentro le cubature di un testo insensato e cercano di ritrovarsi usando quelle stesse parole incomprensibili per farci uno spettacolo teatrale che li porti a una via d’uscita. Ma è un’avventura che li mette a dura prova cercare la libertà attraverso una drammaturgia che parla di statue antiche, uomini del presente, possibilità del futuro. Ma proprio quando tutto sembra convergere in un punto di rottura, ecco che qualcosa accade a dare senso e al contempo distruggere ogni singolo dettaglio esistenziale: l’avvento crudele del parallelismo incommensurabile…
Liberamente tratto dal Romanzo di Milena Magnani Di e con Andrea Lupo Diretto da Andrea Paolucci Produzione Teatro delle Temperie in collaborazione con Teatro dell’Argine
Due storie parallele ma strettamente intrecciate, quella di Branko e quella di suo nonno Nap’apò, due generazioni di rom in questa Europa in cui le etnie nomadi hanno vissuto e vivono ancora vite separate, vite “a parte”. Una generazione è finita nei campi di concentramento, la successiva nei campi rom alle periferie delle grandi città.
Branko Hrabal in fuga dall’Ungheria si rifugia in un campo rom in Italia. Porta con sé dieci scatoloni contenenti quel che rimane del famoso circo ereditato da suo nonno.
Circo che ha dovuto bruscamente interrompere la sua attività durante la Seconda Guerra Mondiale, quando i nazisti ne hanno prima rinchiuso e poi sterminato tutti gli artisti. Branko non sa che farsene di questa eredità pesante ed ingombrante. Ma nel campo trova un gruppo di bambini curiosi che lo obbligano a raccontare la storia di quel circo, che è la storia della sua famiglia e che è in sintesi la storia dell’Europa da cui tutti discendiamo.
Branko si trova così a ripercorrere l’epopea della propria famiglia, dalla gioia, dall’incantamento e dallo stupore che il circo di suo nonno sapeva portare in giro per tutta Europa, fino alla fuga, alla deportazione, alla reclusione e allo sterminio. Sette bambini lo ascoltano con occhi pieni di incantamento e trovano finalmente fra un trapezio, cinque clave e qualche vecchio costume una nuova speranza di riscatto e di felicità.
Fra gente del campo che non è neppure più in grado di immaginare un domani per sé e per la propria famiglia c’è ancora invece chi riesce a vedere una possibilità di futuro: quei sette bambini che trasformano la storia della famiglia di Branko in energia nuova e voglia di riscatto. Nascosti nelle cantine di un vecchio palazzo abbandonato, ispirati da Branko lavorano sodo e alla fine riescono a dar vita ad un nuovo circo… un loro nuovo circo… un circo sottoterra… un circo capovolto.
Un vortice in cui memoria, appartenenza, sangue si mescolano a guerra, deportazioni, tradimenti, fughe e vendette. Uno spettacolo commovente e travolgente. Favola, confessione, epopea familiare, Storia collettiva. In cui i tragici eventi raccontati acquistano una luce particolare, tramite il filtro dello sguardo curioso e incantato dei bambini e l’incombente presenza della magia dello “szerelem”; quell’amore per l’arte che dalle vene della stirpe Hrabal arriva direttamente a quelle degli spettatori, creando una connessione e un’atmosfera unica, che lascia il segno in ognuno.”
Di Armando Discepolo Regia Stefano Angelucci Marino Con Vito Signorile, Tina Tempesta, Rossella Gesini, Paolo Del Peschio e Stefano Angelucci Marino Maschere BRAT Teatro Produzione Teatro Stabile d’Abruzzo in collaborazione con Teatro del Sangro e Teatro Abeliano di Bari
“Stéfano” di Armando Discepolo è considerato un classico del teatro argentino. Il suo protagonista è un musicista diplomato al Conservatorio di Napoli che arriva in Argentina, come tanti immigrati di inizio Novecento, con la speranza di “trovare l’America”. Il suo desiderio è diventare un musicista famoso, scrivere una grande opera e far piovere sterline. Niente di tutto ciò accade. Le esigenze di una difficile sopravvivenza e i propri limiti come autore fanno tacere la sua canzone. La ricerca dell’ideale, la vocazione artistica e i conflitti familiari sono alcuni dei temi che, tra il tragico e il comico, sono crudamente esposti in quest’opera punto di riferimento del grottesco criollo.
“Stéfano” è la storia di un fallimento, personale e collettivo. Il fallimento di una politica liberale, di immigrati venuti sperando di “trovare l’America”, e di famiglie che, composte da generazioni diverse, sono andate a sbattere contro la dura realtà argentina. Tutto questo in una Buenos Aires di inizio Novecento, e in un mondo in continua evoluzione.
L’arte porta alla frustrazione e all’infelicità? L’uomo è condannato a rispettare i processi produttivi imposti dalla società? È necessario evitare i sogni o realizzarli? Questi sono alcuni degli interrogativi che l’opera pone.
Otto maschere antropomorfe che permettono la trasfigurazione. Un particolare codice espressivo nato dalle suggestioni create dai murales e dai “bamboloni” della Boca, il celebre barrio porteño contraddistinto da una forte impronta italiana. Dialoghi semplici, diretti, scarni. Questi gli elementi formali scelti per raccontare una storia di italiani senza Patria.
TRAMA
Un immigrato italiano di nome Stéfano, musicista di professione, sogna di avere successo con la scrittura di un’opera musicale in Argentina. Stéfano convince gli anziani genitori a seguirlo in Sudamerica in questa avventura, promettendo un futuro migliore. Si sposa con Margherita, mettono al mondo tre figli. Gli anni sono passati. L’equilibrio di quel progetto si misura non solo nel cuore del protagonista ma anche in chi lo ha accompagnato e chi gli è succeduto nella vita: i suoi figli e il suo discepolo.
Da un lato, la loro prole. Radamés, il matto, che paradossalmente prende il nome dal personaggio dell’eroe dell’opera Aida, di Puccini. Lungi dallo splendere, questo ragazzone ricorda a Stefano solo l’ombra del suo fallimento. Lo stesso di Ñeca, che sembra essere l’eco delle sue lacrime nascoste, o di Esteban, che nel suo sforzo di essere poeta ricorda e imita, allo stesso tempo, l’illusione infranta di Stéfano. Pastore, suo discepolo, incarna invece la voce di chi ha la dolorosa missione di aprire gli occhi al maestro, che ha perso il posto nell’orchestra e con lui il posto come sostegno della casa e, simbolicamente, quello dei suoi desideri più profondi.
a night with hank Di D. francesco Nikzad Diretto e interpretato da Roberto Galano Musiche originali Antonio Catapano Produzione Teatro dei Limoni
Scritto e diretto da Rosario Palazzolo Con Rosario Palazzolo e Anton Giulio Pandolfo Musiche di Gianluca Misiti, Produzione Teatro Ditirammu Palermo
Esiste una sola verità, ma nessun modo per esprimerla
Sinossi
Due personaggi in scena, se ne stanno in un luogo che ha smesso di rivelarsi, a celebrare una cerimonia sghemba, che si annuncia inutile, una cerimonia che li obbliga a un dialogo che solo apparentemente è privo di senso, un dialogo disteso su di una lingua ruvida, deforme, asintattica e svirgolante, un dialogo straripante di silenzi pieni di paura, che man mano si trasforma, e diviene urlo, esigendo un ritmo da tragedia e una musicalità surreale. Fino al fallimento finale. Ché quello pretendono, i due, il fallimento, perché è la loro scelta, il solo modo che hanno per finire qualsiasi cosa pensano d’aver cominciato.
Nota dell’autore
Riportare in scena dopo quasi quindici anni ’A Cirimonia è un rischio e un atto d’amore. Specie dopo che due grandi maestri come Enzo Vetrano e Stefano Randisi gli hanno dato la vita che gli hanno dato, ma del resto io amo parecchio la possibilità di fallire, e per poi magari rimandare a una prossima volta. E ’U masculu e ’A fimmina, i due personaggi de ’A Cirimonia, sono proprio così: due entità atterrite e allo stesso tempo indomite, che provano a costruire il limite più spaventoso di tutti, quello che determina ciò che è vero da ciò che non lo è. E la verità è un obiettivo impossibile, mi pare, nella vita di ciascuno, ma lo stesso loro intendono conquistarlo, annotando presupposti fasulli e certezze che credono acquisite, senza rendersi conto di aver congegnato soltanto avamposti fragilissimi: degli alter ego mediocri e finti tonti, a cui far vivere le simpatiche peripezie col patto che dimentichino la disperazione. O perlomeno la omettano, corrompendo il ricordo. E io davvero credo che la memoria sia solo una banale autodeterminazione, qualcosa di indotto e perciò di profondamente incerto, traballante, e traballano proprio le fondamenta sulle quali intendiamo erigere le nostre verità, quel processo che per il solo fatto di concepire una cronologia, innesca il movimento dell’immaginazione. E allora occorrerebbe fare ciò fa la scienza quando smette di fare la scienza e fa ciò che dovrebbe fare qualsiasi scienza, ovvero propendere per l’esplorazione, rinnegare la prova empirica e dare voce alle deduzioni, scommettere, investire su una qualsiasi possibilità e poi erigerla sul trono della verità, con la consapevolezza che si è compiuta una scelta, una scelta in mezzo a molte, e semmai giudicare il perché di quella scelta, e non la scelta in sé.
Rosario Palazzolo
Liberamente tratto dall’opera in versi “La Vera storia di Salvatore Giuliano” di Ignazio Buttitta . Diretto e interpretato da Alessio Bonaffini Produzione Ass. Cult. I Martogliati
Questo monologo teatrale, non vorrei che si concentrasse sul fallace eroismo del protagonista. Io , manterrei una certa distanza dal volerlo considerare: “Un giusto”. Il lavoro verterà sulla musicalità e potenzialità del verso, popolareggiante e raffinato. Sul conflitto storico in cui la Sicilia con il suo popolo, arrancano e soffrono. Sul potere nefasto e subdolo che muove le fila, non soltanto di Giuliano, ma degli stessi siciliani. E innanzitutto sul valore della pietà.
ORARIO SPETTACOLI: Venerdì e Sabato ore 21:00 – Domenica ore 19:00
Direttore Artistico: Stefano Cutrupi
Direttore Amministrativo: Angelo Di Mattia
Ufficio Stampa: Chiara Chirieleison
Info e prenotazioni 090.622505 – 349.8947473 info@teatrodei3mestieri.it