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di Juan Rodolfo Wilcock

con Cinzia Muscolino e Stefano Cutrupi

scena e costumi: Cinzia Muscolino

regia: Tino Caspanello

“Noi fatti di parole e di nient’altro, costruiti a caso da un linguaggio, ci domandiamo: ma perché soltanto noi dobbiamo essere uccisi da un linguaggio, mentre le bestie vivono, le piante vivono e noi si muore grammaticalmente?”

Comincia con queste parole una delle più belle poesie di Juan Rodolfo Wilcock (nato a Buenos Aires nel 1919 e vincitore giovanissimo, nel 1940, del Premio Martin Fierro della Sociedad Argentina de Escritores) e queste potrebbero bastare a descrivere tutta l’atmosfera che si respira nel testo Elisabetta e Limone, dove due solitudini si incontrano, due solitudini che vivono di reclusioni fisiche e mentali, che si respingono, si lottano e si cercano e si accettano, perché oltre alle parole che non riescono più a dire il senso delle cose, perché esso è stravolto o rimane oscuro e incompreso, oltre alle parole che non comunicano più, c’è la bellezza del sogno a occhi aperti, di un teatro che ci costruiamo dentro di noi per  non soccombere davanti al mondo che corre, per il quale non possiamo avere che uno sguardo disilluso e, tuttavia, appassionato.

Elisabetta si è chiusa in casa, la sua vita è ormai davanti a se stessa, davanti a simulacri ai quali rivolgere preghiere o accompagnata da gatti da legare perché non scappino via, come il tempo. Limone è fuggito da un prigione che lo segregava ingiustamente per un sogno sbagliato. E quando si incontrano, nasce la paura, che si trasforma in odio, poi in rassegnazione, e ancora in curiosità, per diventare infine accettazione dell’altro, quotidiana incondizionata.